
29 Nov Diciassette cuori in una casetta tra i fiordi
Tre giapponesi. Due coreani. Una canadese e una serba. Cinque italiani. Una cinese. Una spagnola. Un catalano e due tedeschi. Diciassette persone assieme per caso. Con un cane e un camp leader senza una minima idea sul da farsi.
C’erano le volte in cui, dopo aver tagliato piante e sistemato aiuole comunali per tutta la mattinata, si stava semplicemente insieme. Si chiacchierava a gruppetti. Qualcuno vera a qualcosa da bere che fosse tè, caffè coreano, birra o un miscuglio inventato sul momento. C’era chi preparava pane o pensava a che gioco fare o, come Clelia, guardava lo schermo del telefono e scriveva qualcosa di indefinito per fermare quei momenti e non lasciarli in balia di un’evitabile amnesia.
Erano momenti di pace e respiro. Si ascoltava un camp leader assorto nei suoi pensieri suonare la chitarra e canticchiare qualcuna delle sue canzoni indie lievemente depresse. Il gruppo aveva legato fin dai primi giorni e Clelia per prima si sentiva in famiglia. Nonostante non fosse una persona particolarmente chiacchierona ed espansiva era riuscita ad integrarsi quasi subito. Non era nemmeno una cima con l’inglese ma non se ne faceva problema: non iniziava grandi discorsi ma si buttava e faceva del suo meglio.
Uno tra gli ultimi giorni dei dieci totali di campo, quando ormai era tardo pomeriggio, si stava seduti in salottino insieme. Chi giocando a Mafia, chi leggendo, chi meditando in silenzio sui dilemmi di vita si stava insieme. Clelia, che giocava a Mafia nel ruolo di semplice cittadino, circa a metà della partita alzò gli occhi e vide uno squarcio di cielo tra tutte quelle nuvole grigiastre fuori dalla finestra.
C’era una luce soffusa che penetrava debolmente da quell’apertura un po’ come se il sole fosse incuriosito da quell’ondata di energia, dalla felicità che sprigionavano quelle diciassette persone semplicemente condividendo la stessa aria. Come se invidiasse quel momento e volesse prendervi parte ad ogni costo scendendo passo dopo passo dal cielo.
Si sforzava di sbirciare dentro quelle finestre con tutte le sue forze, ma le nuvole islandesi di rado cedono il posto. Lasciarono passare un unico esile raggio che riuscì solo a solleticare il naso di Clelia per pochi secondi. A quel povero sole non fu concesso altro se non impallidire dietro una barricata grigia sognando invano di illuminare quei diciassette cuori.
Irene Galletti, volontaria IBO Campi di Lavoro e Solidarietà, Islanda
Concorso Letterario 2017 “Racconti di una esperienza”