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Home › Volontariato Nel Mondo › Blog › Il mio anno di Servizio Civile in Ecuador

Il mio anno di Servizio Civile in Ecuador

Pubblicato il 8 ottobre 2015 da Giacomo Locci

Questo anno di Servizio Civile mi ha permesso di partecipare attivamente e con responsabilità ad un processo, a un ideale, a un desiderio di un mondo più giusto per tutti, vivendo sulla mia pelle la povertà e i problemi di una società così distante dalla nostra.

Da febbraio 2012 a gennaio 2013 ho vissuto e lavorato come infermiera ad Angamarca, un paesino disperso sulle Ande, a circa 3.000 m di altitudine nella provincia del Cotopaxi (centro Ecuador), situato a 1 ora e mezza di strada sterrata da Zumbahua, il primo centro abitato dotato dei servizi di base, tra cui l’ospedale a cui facevamo riferimento che fornisce assistenza ad una media annuale di 1.000 pazienti ricoverati.

Il progetto di servizio civile nasce grazie alla collabrazione fra IBO Italia e il partner locale Operazione Mato Grosso (OMG). L’obiettivo dell’OMG in Ecuador è garantire, in aree remote e rurali delle Ande, servizi essenziali quali l’istruzione, l’assistenza sanitaria e il lavoro per frenare il fenomeno migratorio verso le grandi città e rinforzare il legame comunitario degli indios con la propria terra di origine.

Angamarca comprende il “pueblo” e 27 comunità indigene circostanti, la maggior parte delle quali raggiungibili solo a piedi, le più lontane distano 4-5 ore di cammino. Qui i principali mezzi di trasporto sono i cavalli, gli asini, qualche moto nei casi migliori e per tutti le care vecchie gambe! La popolazione del territorio conta circa 5.000 abitanti, di cui il 75% vive nelle comunità rurali. Da subito ho capito che si trattava di un posto speciale, fuori dal mondo. Il paesaggio è incredibile, soprattutto al tramonto, quando dalle vallate si solleva un mare di nubi rosate con gli alpaca che camminano tranquillamente davanti a questo sfondo meraviglioso.

La società è agricola anche se, nonostante l’abbondanza di terre coltivabili, solo una parte minoritaria della popolazione ne possiede la proprietà (1,7%), mentre la maggior parte degli abitanti lavora a mezzadria. La strada serpeggia in mezzo ai campi coltivati a orzo, grano, patate e fave e ai prati dove pascolano mucche, pecore e altri animali. Lungo la strada i “campesinos” (i contadini, la gente del campo), coperti dai loro coloratissimi abiti tradizionali, lavorano instancabilmente la terra, a volte aiutati dai buoi che trainano gli aratri.

Davanti alle case donne sedute che fanno la maglia o occupate a togliere le pulci dalle teste dei figlioletti. Le donne, dai lunghi capelli scuri spesso raccolti in trecce, portano i bambini sulla schiena, avvolti in mantelli colorati e se non hanno piccoli da trasportare li riempiono di altro. Intorno alle madri giocano tanti bambini.

Appena arrivata ad Angamarca mi sono messa subito al lavoro, e c’era davvero un bel da fare! I servizi sanitari del territorio sono scarsi e discontinui. È presente un solo centro di salute ministeriale aperto per pochi giorni alla settimana. Io lavoravo nel dispensario sanitario “Mama Rosa”, costruito dai volontari OMG, che garantiva la presenza costante di un’infermiera a servizio della popolazione del territorio (senza limiti di giorni e orari) e la possibilità di trasporto all’ospedale di Zumbahua con l’ambulanza.

Ho cominciato sistemando e riorganizzando l’ambulatorio medico, a richiedere farmaci e presidi vari all’ospedale e a riordinare tutti i faldoni delle storie cliniche. La struttura è molto bella e grande, costituita dall’infermeria, la sala medica, lo studio dentistico, una sala parto, camera di degenza e due bagni. Le giornate sono volate tra grandi pulizie, spostamenti di mobili, operai che montavano mensole e sistemavano bagni e ovviamente tante persone con i problemi più disparati!

Data la situazione di povertà in cui versa la maggior parte degli abitanti del territorio, la popolazione risente di numerosi problemi di salute. Le malattie più diffuse sono diarree, infezioni intestinali, malattie cutanee, malattie respiratorie (in particolare tubercolosi), infezioni urinarie, dolori reumatici e artriti. Sono patologie legate all’indigenza che non consente agli abitanti di garantirsi un’adeguata alimentazione e alle precarie condizioni abitative. La maggior parte della popolazione vive in condizioni igienico-sanitarie pessime.

Ad Angamarca bisognava sempre essere pronti a qualsiasi tipo di emergenza o casi umani, succedeva davvero di tutto, di giorno come di notte: parti, feriti (soprattutto da macete, utilizzato da grandi e piccini nella vita quotidiana), ustioni, accoltellamenti, risse tra ubriaconi (l’alcolismo è molto presente), incidenti e problemi legati alla denutrizione infantile.
La denutrizione infantile, causata dalla difficoltà delle madri a garantire un adeguato livello di alimentazione, è particolarmente diffusa.

Ogni due settimane, il giovedì e venerdì, venivano i dottori dall’ospedale (medico, dentista e ostetrica) e il dispensario traboccava di gente che scendeva in paese per il mercato. Gli altri giorni ero io la “doctorita”. Abbiamo collaborato con l’altro centro di salute del paese, quello dello Stato. Mensilmente si teneva la riunione con tutte le “parteras” delle comunità (figure locali formate ad assistere le madri durante il parto a garanzia della salute del bambino e delle puerpere), per tener sotto controllo la situazione delle donne incinte, fare corsi di formazione e ridurre l’elevata mortalità materno-infantile, attraverso la collaborazione di tutti.

Numerosi sono infatti i problemi legati al parto. Il numero di nascite annuali è di circa 200 bambini l’anno. Il 90% delle madri dei villaggi del circondario partorisce in casa assistite da “parteras”,poiché lo stato di gravidanza non consente loro di camminare per 2/3 ore a piedi per raggiungere il centro sanitario ad Angamarca. Le complicanze legate al parto e alle difficili condizioni igieniche sono una delle principali cause di morte materna.

Un’altra attività che abbiamo sviluppato è stata quella con i bambini disabili (altro importante problema sociale), letteralmente abbandonati a se stessi. Non esiste un adeguato sostegno o appoggio da parte dello Stato e nemmeno informazione. Fino a poco tempo fa, la vergogna portava le famiglie a nascondere queste creature “diverse”. Una volta a settimana li portavamo all’ospedale a fare logopedia, fisioterapia e attività ludiche, cercando di dare un sostegno alle famiglie. Il percorso ha portato ad un miglioramento delle condizioni dei bambini e ad un nuovo approccio delle famiglie nei confronti della disabilità dei figli.

Le zone andine sono state da sempre oggetto di scarso interesse da parte delle autorità governative ed amministrative locali, per cui molte di queste aree sono prive di infrastrutture, di servizi essenziali e di opportunità economiche. Nelle comunità rurali gli abitanti vivono in situazioni di estrema indigenza, coltivando piccoli appezzamenti di terreno per la sussistenza domestica e fabbricando semplice artigianato locale che poi rivendono al mercato.  La popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà nel territorio rappresenta circa l’ 87% del totale. La speranza di un lavoro stabile e degnamente retribuito, che permetta il miglioramento delle condizioni di vita, rappresenta il motivo principale di emigrazione verso le città; speranza che, purtroppo, viene spesso disillusa dalla realtà.

La forza prepotente del progresso irrompe in una società impreparata al cambiamento, riempendola di contraddizioni e difficoltà, nella quale le persone vedono peggiorare le proprie condizioni di vita. È una realtà dura quella che vivono le persone qui. Durante le visite domiciliari settimanali nelle comunità, sono potuta entrare in contatto diretto con la vita reale delle persone, accolta nelle loro umili dimore.

Ho vissuto 3 giorni in casa di una famiglia in una comunità a 4.000 m di altitudine, perché una bambina si era ustionata un braccio e i genitori non volevano portarla in paese…è stata dura. I “campesinos” vivono in capanne di fango e paglia (“chozas”), con un’unica stanza dove non si riesce a respirare per il fumo prodotto dal fuoco acceso in terra per scaldarsi e cucinare. Sono ambienti umidi e malsani, in cui contemporaneamente si cucina, si dorme e si allevano i “cuy”, i porcellini d’india che in queste zone si mangiano. Mi ricordo un freddo e vento incredibili. La prima notte non ho chiuso occhio sotto 5 coperte!

È un ambiente totalmente inospitale e sembra impossibile poter vivere in quelle condizioni climatiche, che alternano fortissimi venti gelidi d’estate e piogge torrenziali durante l’inverno. Il cibo è quello del campo: patate e “sopa” (zuppa-minestra) a colazione, pranzo e cena. I campesinos si alzano alle 5 del mattino e passano la giornata a lavorare nei campi (tutto a mano o con l’aratro trainato dai tori) e a pascolare gli animali.

Il mio carico di lavoro è stato molto vario e impegnativo, ogni giorno ho avuto l’occasione di imparare e acquisire nuove competenze. Ho potuto conoscere una nuova cultura, ricca di tradizione e genuinità, che mi ha nutrito nonostante le difficoltà a volte incontrate nel confrontarmi e vivere in una cultura così diversa dalla mia.

Certo ci sono stati anche periodi duri e non sono mancate le difficoltà nel vivere un’esperienza così intensa e totalizzante: questo sia per il contesto in cui ho vissuto, cioè una casa parrocchiale, dove non esistono orari e nemmeno giorni di chiusura e dove è davvero difficile ritagliare i propri spazi e giorni liberi, sia per il tipo di servizio che ho prestato. Le emergenze non rispettano le esigenze del riposo settimanale.

Questo anno di Servizio Civile mi ha permesso di partecipare attivamente e con responsabilità ad un processo, a un ideale, a un desiderio di un mondo più giusto per tutti, vivendo sulla mia pelle la povertà e i problemi di una società così distante dalla nostra. Mi ha permesso di mettermi alla prova, di crescere professionalmente e come persona, di conoscermi meglio ed entrare sempre più in contatto con me stessa, di riflettere su tante cose attraverso il contatto diretto con una cruda realtà, sporcandomi le mani e stando vicino alle persone.

Me ne sono andata con un po’ di tristezza e con il tipico nodo alla gola di ogni partenza vissuta e sentita nel profondo, ma anche con il cuore colmo riempito da tutte le persone incontrate durante quest’anno: dai sorrisi, dai pianti, dalle vite spezzate e da quelle cominciate, da tutti i bisogni che mi sono trovata davanti, dalle prove che ho dovuto affrontare, dai segreti confidati, dalle nuove conoscenze e consapevolezze, dall’esempio di solidarietà di tanti altri volontari.

Chiara Pianta, volontaria IBO Italia in Servizio Civile in Ecuador

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