Il Perù tra crescita, povertà e disuguaglianza

È impresa ardua raccontare il Perù dal piccolo osservatorio privilegiato delle periferie di Lima nord. A ventinove anni non ho capito quasi nulla dell’Italia, figuriamoci del suggestivo Paese andino. Posso però provare ad offrire degli spunti.

La prima impressione, anche la seconda e la terza, di tutte le periferie di Lima è il disordine, lo sviluppo caotico, la precarietà, la povertà spesso manifesta. Sembrano non-luoghi abitati da molti, ma vissuti da pochi. Laddove tutti o quasi si sono trasferiti in cerca di un futuro migliore, soprattutto con le massicce migrazioni dalla zona andina. Sono esigue le possibilità di incontrare un limegno di origine nei quartieri di borgata a Lima.

Non tutta la capitale è così. Le prime differenze si notano appena si va verso il centro, dove la città cambia quasi completamente, appare meno desertica, più pulita, i mezzi di trasporto meno selvaggi, gli edifici più curati. Anche i tratti somatici delle persone mutano notevolmente. Pertanto, non può che spiccare il contrasto, l’enorme disuguaglianza economica e sociale.

La vetta del cerro

Il sobborgo in cui vivo da 10 mesi e dove sto svolgendo il servizio dei Corpi Civili di Pace, sembra un paesino, un po’ isolato dal resto della città grazie alle collinette sabbiose che lo delimitano, quasi a proteggerlo. Qui la prima ondata migratoria è arrivata a metà degli anni ’60, ed è testimoniata dalle prime costruzioni nella parte bassa del quartiere. Poi si è cominciato ad erigere casette sempre più arrampicate alle pendici delle colline, dove il cemento lascia spazio a semplici moduli abitativi in legno. È micidiale osservare come ci siano le periferie nelle periferie, visto che più ci si inerpica alla sommità del cerro, più le situazioni abitative sembrano drammatiche ed i già quasi inesistenti servizi scompaiono. Pare un inferno dantesco al contrario, in luogo di scendere si sale, fino alla cima, dove le persone non hanno commesso nessun peccato grave, se non quello di essere arrivati per ultimi e sognare un domani migliore per i propri figli.

Eppure a volte i cosiddetti “poveri” non sono così distanti dai “ricchi”, arrivano a sfiorarsi. Come in in’altra zona della città, tristemente famosa per il “Muro della vergogna”, una costruzione di circa 10 chilometri ed alta 3 metri che separa uno dei quartieri più benestanti a uno degli insediamenti nati senza alcuna pianificazione. Eretto come spesso accade in nome della sicurezza, risponde alla necessità dei cittadini più facoltosi di rimarcare le differenze sociali in maniera discriminatoria.

“Miracoli” economici

Nonostante queste contraddizioni, immagini di disuguaglianza e disagio siano ben scolpite nella mia mente, credo sia necessario offrire qualche dato ufficiale, in modo da mettere a fuoco quella che rimane una percezione personale.

Definire la situazione economica peruviana non è impresa semplice. Sono passati ormai 30 anni dalla crisi più acuta della storia del Paese, sotto la prima presidenza di Alan Garcia, ricordata da tutti a causa dell’iperinflazione, della scarsa reperibilità di prodotti e alimenti basici, dell’indebitamento dello Stato e dell’isolamento internazionale. Oggi non c’è dubbio che il modello economico dominante sia un’economia di mercato di stampo neoliberale, grazie alle politiche avviate durante le presidenze autoritarie di Alberto Fujimori (1990-2000) e successivamente confermate nel nuovo secolo con il ritorno alla democrazia.

Negli anni ’90 l’economia peruviana ha ricominciato a crescere, pur in maniera altalenante, centrando l’obiettivo fondamentale di riportare l’inflazione a livelli molto bassi. Con il ritorno alla democrazia c’è stato un consolidamento duraturo e, mentre Europa e Stati Uniti sul finire dei 2000 entravano in profonda crisi, in Perù si gridava al miracolo economico, con tassi di crescita del PIL che lambivano la doppia cifra. L’onda lunga si è attenuata nell’ultima decade, anche se i tassi di crescita in calo si sono rivelati comunque superiori ai corrispettivi di molti altri Stati del continente.

85 euro al mese

Proprio per questo rallentamento il tasso di disoccupazione odierno, seppur inferiore al 7%, è praticamente il doppio rispetto a quello di cinque anni fa. Sul tema del lavoro pesa tra l’altro in maniera impressionante l’informalità, il lavoro sommerso e irregolare. Secondo i dati del fisco, addirittura il 70% della forza lavoro è informale, quasi 12 milioni di persone. La maggioranza è indubbiamente di lavoratori “autonomi”, ma stride il fatto che ben tre milioni di persone siano lavoratori informali che prestano servizio presso imprese dell’economia formale, senza nessun contratto nè garanzie.

Sul fronte della povertà, a prima vista i passi avanti negli ultimi decenni sembrano notevoli. Agli albori degli anni 2000, almeno un peruviano su due era classificato come povero, mentre nel 2017 il tasso si attesta al 21,7%. A tal proposito è doveroso segnalare come la soglia della povertà personale sia di 338 soles, al cambio attuale circa 85 euro. Così non è da considerarsi indigente una famiglia di quattro persone che riceva poco più di 1352 soles, circa 340 euro al mese. Oggettivamente, visti i non economicissimi prezzi al consumo dei prodotti ed alimenti base, rimane difficile capire come sia possibile vivere dignitosamente per una famiglia non ritenuta povera dalle statistiche. Considerando anche che il 21,7% in condizioni di povertà rappresenta quasi sette milioni di persone, si delinea un quadro tutt’altro che edificante. Inoltre, la crescita di un punto percentuale del dato nell’ultimo anno non può che risultare molto preoccupante.

La banalità della disuguaglianza

L’altra nota dolente e tangibile della situazione economica peruviana è il tema della disuguaglianza. L’indice Gini, che stima la disuguaglianza economica, riporta un dato discreto, più basso nello specifico di altri Paesi della regione. I critici contestano però l’eccessiva parzialità dell’indicatore, che non considera fattori come l’accesso alla sanità, l’educazione, l’igiene ambientale o la sicurezza. Hanno in seguito evidenziato che la distribuzione della nuova ricchezza prodotta è stata poco omogenea ed abbia in realtà favorito solo le classi più abbienti, visto che negli ultimi quattro anni non si è verificata la benché minima riduzione del coefficiente.

È interessante notare per giunta come ci siano differenze abissali tra i centri abitati, come Lima, dove il 13% della popolazione si trova in situazione di povertà relativa, e le zone rurali andine o amazzoniche, dove si supera ampiamente il 40%. Non c’è dunque da meravigliarsi del fenomeno delle migrazioni interne verso la capitale, megalopoli ormai da più di 10 milioni di abitanti, più di un terzo dell’intero Stato. Con le improvvisate periferie destinazione obbligata.

Non può essere questo a mio avviso un modello di sviluppo corretto, equilibrato e duraturo. Il problema è che quando si è immersi in questo contesto, tutto diviene normale, l’eccezione si trasforma in regola. Soprattutto per coloro che ci vivono, che sentendosi isolati e inascoltati diventano invisibili. E quando l’inconsueto diventa ordinario, forse, ci si rassegna a pensare che tutto sia immutabile, adeguandosi ad un sistema che riproduce e amplifica le disuguaglianze.

Luca Bini, Volontario IBO dei Corpi Civili di Pace in Perù