
06 Ott Inferno e Paradiso
Ci sono occhi che non hanno nomi e non vogliono storie dietro di sè, semichiusi, occhi che odiano la luce, che non ammetto nessuna verità.
Eppure appartengo ad un corpo e dunque ad una vita. Sono sul viso di una ragazza, forse ragazzina, in posizione orizzontale, una gamba piegata in una posa inverosimile, l’altra stesa. All’estremità un piede nudo, come una cenerentola deprivata. Il suo corpo è solo un elemento aggiunto a un panorama semiurbano, un incrocio di El Tejar, tre strade si intersecano, un marciapiede alto, una tienda aperta, cemento.
Nella strada albergano altri “eroi della notte”, sono tutti uomini, non danno poi così scandalo. Alcune donne si fermano all’angolo, istinto, solidarietà femminile, che si chiami come si vuole, ma loro sono lì e parlottano. Anche io ci sono, sono dall’altra parte di una delle strade. Una musica dalle note cadenzate annuncia una carovana di gente che in quel preciso momento cammina silenziosa. Occhi bassi questa volta, in cerca di una grazia possibile per il loro defunto. Lui si adagia sul vano posteriore di un pick-up, tra i fiori colorati e la compagnia di una bambina, forse una parente. Alcuni uomini chiudono le file, stringono i loro cappelli tra le mani, ma neanche nella tanta solennità dell’occasione si risparmiano di guardare, di scrutare, di usare i propri occhi come armi.
Sono le tre, tra qualche minuto si potrà contare il nostro ritardo. Un uomo si distingue nell’altra strada: ha un uniforme evidente, a lui ci si deve rivolgere: gli chiediamo se può soccorre la ragazza, se può chiamare i “bomberos”. La risposta è un altro sguardo, fuggitivo: si posa sul corpo di lei ancora disordinato, su di noi, e si congeda frettolosamente su altri dettagli, immettendosi nella “calle” parallela.
Un passo e una donna ci ferma, non sa niente di noi, ma sembra sapere tutto. Ci chiede se noi siamo le volontarie che collaborano con una associazione per la tutela delle donne e non aspettando la risposta riassume telegraficamente il suo malessere: marito, divorzio, figli, sospensione della pensione alimentare.
Le rispondiamo che daremo il suo contatto alle nostre compagne e a loro potrà rivolgersi con fiducia. Occhi schivi, vergognosi, sono ora sollevati, luminosi.
Il ritardo sta diventando effettivo, ma siamo vicine. Lo so perché sento il rumore delle biciclette che ronzano, e anche di una moto, è quella di K., ridendo pensiamo che è il più audace ma in verità è solo il più alto, un altro bambino in un corpo di un adulto. Ci hanno visto, e qualunque cosa stessero facendo, ora diviene la meno importante, la lasciano per correrci incontro, chi porta una “broma”, chi un “dulce”, chi un abbraccio, chi solo se stesso e a noi basta. Finalmente quegli occhi. Vita e morte passano sulla stessa strada senza chiedere il permesso.
Hanno una piccola cassetta di cartone che sembra un forziere per il valore che ha, nella quale possono lasciare le loro preoccupazioni, i loro malesseri, le loro storie.
Anche io oggi ho scritto il mio foglietto e l’ho imbucato, stringendolo prima forte tra le dita e poi lasciandolo andare. E’ così che loro fanno con i brutti pensieri, alle volte li tormentano, ma lì in quel posto possono lasciarli andare. Abbiamo circoscritto un luogo, fisicamente il patio della scuola del CEDIN, e un tempo, il mercoledì pomeriggio, dove loro possono essere loro stessi o chi vogliono. Ora ne sono consapevoli.
Oggi sono arrivati travestiti, ognuno dal proprio personaggio preferito. Non si aspettavano di dover partecipare ad un’audizione, eppure una ventina di sedie, musica e due spazzole al posto dei microfoni, hanno fatto di loro attori emergenti alla ricerca del successo. Una miriade di espressioni, accenni, sensazioni si sono susseguite su quel palchetto, di fronte a occhi meravigliati, questa volta nostri.
Silvia Guerrieri, Guatemala
Racconto vincitore del Concorso Letterario IBO “Racconti di una esperienza” 2016