La mia giornata caratterizzata da due emozioni: rabbia e tristezza

La mia giornata caratterizzata da due emozioni: rabbia e tristezza

 

Mi trovo in Madagascar da sette mesi e oggi è stata una brutta giornata, una di quelle giornate in cui non capisci se sei più triste o arrabbiata, in cui ti poni tante domande alle quali, però, non vi è alcuna risposta.

Stamattina, come quasi ogni mercoledì, siamo andati a fare una visita domiciliare. Oggi siamo stati a casa di Soanambinina, poiché sua mamma sabato scorso è arrivata al Centro a domandarci del riso; le visite a domicilio hanno l’obiettivo di comprendere la situazione familiare e sociale dei bambini che frequentano le attività del centro diurno.
Soanambinina vive con sua mamma in un complesso di “baracche” senza servizi igienici, acqua ed elettricità. La stanza in cui abitano è minuscola: alcun mobilio all’interno, neanche un piccolo letto. La mamma per vivere vende bottiglie di plastica vuote a un massimo di 200 aryari ciascuna o dei resti di carbone a 2000 aryari. Spesso non ha nulla da mangiare, o quello che ha non è sufficiente per mamma e figlia. Fortunatamente Soanambinina mangia sempre al Centro.

Ogni casa che in questi mesi abbiamo visitato ha una storia differente, ma sono tutte caratterizzate da un contorno di estrema povertà. Prima di ciascuna visita a domicilio non so mai cosa aspettarmi, ma ogni volta penso di essere pronta, perché tanto “non è possibile vedere qualcosa di peggio” – penso. Non è così però. Non si possono mettere a paragone perché, appunto, ogni storia è complessa a modo suo e io non finisco mai di stupirmi, non normalizzo qualcosa che per me è pressoché surreale. Penso non sarebbe nemmeno giusto normalizzare. E oggi, a casa di Soanambinina, mi sono sentita impotente, piccola e egoista. Viviamo di superficialità e ci lamentiamo se ciò che desideriamo non rispecchia perfettamente la nostra volontà e invece qui ci sono bambini, come Soanambinina, che vivono in un piccolo spazio angusto e buio, nei casi più fortunati con un materasso come letto, che vivono di nulla, di niente di materiale, eppure si impegnano a scuola, non domandano molto e giocano felici.
Di solito a effettuare le visite domiciliari siamo in tre: io, Cédric e una delle educatrici locali. Oggi eravamo in sei, perché a noi si sono aggiunti degli “ospiti” in visita al Centro come volontari. Sono stati fatti interventi che non mi hanno fatto stare bene, è stato supposto, per esempio, che a casa di Soanambinina si potesse creare una finestra per far girare l’aria. In una casa in cui siamo entrati accovacciandoci, in cui non vi è un letto, non vi è luce, non c’è il bagno, non c’è nulla. Utilizzo il verbo “supporre” volutamente, perché mi è sembrato come se si stesse “supponendo” di avere una soluzione logica per risolvere il problema di aereazione nella casa. Mi rendo conto che forse il mio è un giudizio, ma non mi ha fatto stare bene, seguo le mie sensazioni che sono state tutt’altro che positive.
Quando dico che vacilliamo se ciò che desideriamo non viene realizzato a pieno mi riferisco anche a un bisogno che si ha di donare per se stessi e non per gli altri. Ma donare significa “dare con assoluta spontaneità, liberalità, disinteresse”. Abbiamo parlato di solidarietà nei giorni scorsi, che non è donare ciò che si ha in più, ma è condividere ciò che si ha. È un atto che non richiede un ritorno. In questi giorni mi è capitato di osservare una ricerca del bambino perfetto da adottare a distanza, magari bravo a disegnare o con cui si è scambiato un paio di parole in più, circostanze in cui i pensieri sono stati “che peccato che lui è già adottato” e io, al contrario, ho pensato “meno male che è già adottato” perché ciò significa che si ha già il sostegno di qualcuno, e io posso aggiungermi al gruppo che sostiene, a prescindere se il bambino è bello, brutto, alto, magro, bravo a disegnare o cantare, e quindi credo sarebbe stato bello sentire “voglio adottare per donare il mio contributo, cosa devo fare per farlo?”. Rabbia. Ho provato rabbia.
Durante le nostre visite a domicilio si cerca sempre di porre domande ai familiari di cui visitiamo le case in maniera molto delicata, entrandovi sempre in punta di piedi, ma oggi, ancora una volta, è stato supposto che la mamma di Soanambinina ci stesse domandando qualcosa, quando la realtà è che siamo noi a scegliere a casa di chi effettuare la visita a domicilio, siamo noi a domandare quali sono i bisogni di questi nuclei familiari. Perché la solidarietà è anche questo: essere in grado di osservare e comprendere dove vi è un bisogno, anche nel momento in cui non vi è richiesta esplicita.
A fronte di tutto ciò, io mi sono sentita in colpa per l’invadenza, l’ingiustizia e la poca empatia e delicatezza. Avere a che fare, toccando con mano, con così tanta povertà non è semplice, neanche dopo sette mesi in cui si vive con tutto ciò quotidianamente; da casa (quella parte di mondo che ora è lontana) certe situazioni non si possono neanche immaginare secondo me, e proprio per questo ritengo opportuno, se si ha la possibilità di comprenderle da vicino, osservare con rispetto, cercando di coglierne i bisogni reali.

Più tardi nella mattinata è arrivato Angeloh, il fratello di Josephine (un’altra ragazza del centro). È passato circa un mese da quando abbiamo accompagnato la loro mamma, la signora Berthine, a effettuare controlli medici. Sono diversi mesi che la signora soffre di un dolore all’inguine molto invalidante da tenerla spesso allettata. Berthine prima che noi l’accompagnassimo in ospedale non si era rivolta ad alcun medico, poiché convinta che il suo malessere fosse causato dalla magia nera, quindi da un maleficio. Berthine ha un tumore in stato avanzato al collo dell’utero. L’ospedale ha accettato di prendere in carico la signora solo dopo aver ricevuto i risultati della biopsia (dopo un mese) ma non vi è nulla di chiaro (nulla lo è con il servizio pubblico sanitario qui a Fianarantsoa). Angeloh arriva tutti i giorni al centro con ricette di analisi da effettuare, che lui da solo non potrebbe permettersi di pagare e mi chiedo quanto abbia compreso la situazione, quanto sia stato informato e quanto sia consapevole della gravità della malattia di sua mamma. Angeloh ha poco più di 20 anni, ed è vero che qui mi è complicato comprendere le età, che i ragazzi e le ragazze sono costretti a crescere in fretta, ma a volte, incrociando lo sguardo di Angeloh, mi sembra di vedere un ragazzo perso, un ragazzo bisognoso di cure e di essere accompagnato in questo momento così complesso per lui e la sua famiglia.
Oggi la dottoressa (sorella di Marie) ci ha comunicato per telefono, dopo aver contattato l’oncologo, che non vi è alcun trattamento possibile per il tumore di Berthine, se non cominciare delle cure palliative; ma allora perché l’ospedale pubblico comunica ad Angeloh che sua mamma sta migliorando? Perché domanda in continuo di effettuare degli accertamenti? Hanno chiesto una cifra equivalente a circa 165€ per effettuare uno scanner… ma come può un ospedale pubblico chiedere così tanti soldi? In Madagascar allora chi è povero non si può curare? Ho tante domande che mi fanno arrabbiare e continuo a pensare a Josephine e Angeloh, forse troppo piccoli per affrontare tutto ciò.

Arriviamo a Fanjara. La storia di questo ragazzino del centro mi provoca rabbia, forse perché è una storia che non riesco a comprendere fino in fondo. Fanjara, a fine anno scolastico, dovrà effettuare un esame per ricevere il suo primo diploma per poter passare alla scuola “college” (il corrispettivo della nostra scuola media), ma da mesi c’è un problema con l’iscrizione all’esame di questo bambino: la scuola non ha il suo atto di nascita. Senza questo documento sembra che Fanjara non possa svolgere l’esame. Esiste una soluzione a questo problema, ovvero sua mamma dovrebbe recarsi in comune a richiederne una copia, ma ecco un altro problema: la signora ha perso la sua carta d’identità e, pertanto, senza documento non può domandare l’atto di nascita del figlio. In questi mesi abbiamo tentato invano di trovare una soluzione senza, però, alcuna collaborazione da parte della madre di Fanjara, oltre alla tanta confusione tra l’équipe educativa locale del Centro diurno. Al centro possediamo una copia del documento della mamma del bambino utile affinché la signora possa richiedere un duplicato del suo documento, per poi fare richiesta dell’atto di nascita del figlio. In un primo momento questo documento non si è trovato e la situazione di Fanjara ha spesso rischiato di finire nel dimenticatoio, ma non sono riuscita a comprenderne il motivo, anzi, più mi ostinavo a cercare di fare chiarezza più si sono creati scontri e confusione.
Dopo mesi, tuttavia, siamo riusciti a recuperare la copia del documento d’identità, consegnarlo alla madre di Fanjara e assicurarci che la signora cominciasse tutte le procedure. Nel pomeriggio di oggi la madre del ragazzino è arrivata al centro accompagnata da due signori (i suoi vicini di casa) che hanno domandato dei soldi per testimoniare in tribunale (se ho capito bene serve qualcuno che accompagni la signora e che testimoni che si tratti davvero della madre del bambino). Adesso io mi chiedo come sia possibile tutto ciò. Come sia possibile che nessuno abbia messo al centro di questa storia Fanjara, che tutti hanno dimenticato (in primis sua madre) che questo ragazzino rischia di non fare l’esame e mi chiedo anche come possano due persone aiutare solo in cambio di soldi. Oggi con loro ho contrattato: gli darò delle sigarette in cambio della loro testimonianza. Non sono felice di questa cosa, non sono fiera di ciò che ho fatto, ma i signori non avrebbero accettato di fare del bene in maniera spontanea e gratuita, non avrebbero accettato di essere solidali con la mamma di Fanjara se in cambio non avessero ricevuto un qualcosa. Non sono certa né tanto meno fiduciosa che la storia di Fanjara si risolva in modo positivo, ma ora non posso fare altro che attendere di capire come si muove sua madre, dopo mesi in cui non ha dato importanza ai bisogni di suo figlio.

È in giornate come queste che perdo fiducia nelle persone, che vorrei poter fare di più per tutti questi bambini che non hanno scelto di ritrovarsi nella condizione in cui sono.

 

Carolina Bertucca, volontaria in Servizio Civile a Fianarantsoa, Madagascar