La terra sotto i piedi

La terra sotto i piedi

E’ seduta per terra, sulla stuoia. Il volto sorridente è illuminato dalla fiammella di una lampada a petrolio, ricavata da un barattolo di latta è l’unica fonte di luce. Tutto attorno a lei, la sua casa che è solo una stanza: un letto sormontato da una zanzariera, un piccolo armadio, un comodino con libri e penne. In un angolo, un fornello a carbone per cucinare i pasti. Un grosso gatto rosso è uscito con passi calmi a fare una passeggiata quando ha aperto la porta per farci entrare. La luce si riflette calda sul legno delle pareti e dei mobili, lo modella in vellutati giochi di luce ed ombre, in quello spazio raccolto dall’altro lato del mondo siamo un dipinto ad olio di bellezza mistica. La conversazione procede a tono basso, non c’è bisogno di alzare la voce: le parole sono trattenute e aleggiano come nuvole sopra le nostre teste.
Da fuori risuona un saluto e le chiacchiere si interrompono mentre dalle tenebre fitte oltre la porta emerge un ragazzo con una grossa tanica d’acqua sulle spalle, acqua potabile che le viene consegnata a domicilio, spiega la padrona di casa.

Ha qualcosa di surreale e di significativo trovarsi seduta davanti ad un’altra versione di te stessa, in una casa-stanza dall’altro lato del mondo, in un villaggio piccolo nel sud-est del Madagascar.

Ha la mia età, come me è laureata in scienze sociali, adora i gatti e ha il viso adorno di un sorriso divertito. Insegna in una scuola locale, si è trasferita dalla città per vivere in affitto vicino al suo luogo di lavoro. Siamo uguali io e lei, entrambi giovani professioniste che costruiscono la loro carriera.

Mi prende una sensazione di familiarità nelle difficoltà comuni che viviamo e un senso di straniamento, come un riflesso da uno specchio distorto, per le differenze tra le nostre condizioni.

Lei infatti vive la sua vita professionale senza elettricità, acqua corrente e strade asfaltate, lei a differenza di me sta costruendo la sua carriera in uno stato politicamente instabile ed economicamente fragile. Tornando quella sera nella casa dove noi volontari viviamo mi rendo conto improvvisamente che il terreno non è solido sotto i miei piedi e non solo per colpa della fanghiglia rossa che blocca tanti mezzi nelle strade qui intorno.

Sono partita per il Madagascar a luglio del 2018 per un mese di volontariato nella scuola dell’Associazione Zanantsika a Vohimasina, un piccolo villaggio che si trova nella provincia di Manakara a pochi chilometri dall’oceano.
Avevo lavorato per un anno in un centro di accoglienza dove avevo incontrato l’Africa per la prima volta: complessa, dinamica, lontana dal ritratto monocolore che l’immaginario collettivo le dipinge addosso. Avevo ricevuto, nell’ambiente emotivamente distruttivo dei centri, la grande possibilità di sbirciare dal buco della serratura, ma volevo farci un passo in questo grande continente al di là del mare anche entrandoci per la porta laterale (il Madagascar è uno stato un po’ eccentrico, unico non solo dal punto di vista naturale ma anche culturale e sociale).

In Italia, siamo incredibilmente ciechi nei confronti del resto del mondo che osserviamo da una finestra offuscata, il cui vetro mai ci preoccupiamo di pulire. E’ un grave errore: guardarsi attorno permette di vedere se stessi, di capire dove ci si colloca. Ci permette di essere critici nei confronti delle nostre mancanze e dei nostri pregi.

Quando io e Francesca (la mia meravigliosa compagna di avventura) leggevamo le notizie dall’Italia sui nostri cellulari, con la mente a casa ma il corpo immerso in un altro mondo, c’era una riflessione, una consapevolezza che si formava chiara nella mia mente: dobbiamo veramente prenderci cura del nostro Stato, di questa terra solida su cui camminiamo ogni giorno senza rivolgerle un pensiero. Non diamolo per scontato, siamo fortunati a farne parte.
Quante strade ci è stato facile percorrere grazie alla sua sicurezza, quanto lontano possiamo spingere il nostro sguardo levandoci dritti da questa base!

Ricominciamo a far politica, diamo nuova dignità a questo termine: è una parola che suona sporca e faticosa, ma che non deve esserlo. Politica è discutere e monitorare la salute dello Stato, della Repubblica, del bene di tutti. Non dico di fondare partiti e concorrere in massa alle prossime elezioni, ma di operare una costante e continua attenzione. Nella frenesia delle nostre vite, tra il lavoro e lo studio, ritagliamoci un po’ di tempo per verificare qual è il presente del nostro Stato, ricordarci il suo passato e immaginarci il suo futuro.
C’è molto che non conosco, comprendere bene il funzionamento degli organi governativi mi risulta faticoso e leggere alcune notizie di politica mi è difficile: so di non essere la sola, ma me ne vergogno e mi rendo conto che non dovrebbe essere così.

Studiamo, prendiamoci il tempo non solo per informarci ma per capire, per chiederci, per aver chiaro fino in fondo come ogni ingranaggio funziona.

Chi ama prendersi cura di un giardino (per molte religioni, sinonimo del paradiso) sa bene che esso non richiede sforzi immani, ma piuttosto un’attenzione costante, un interesse ripetuto e continuo per controllare che l’acqua arrivi alle radici e la luce alle foglie, che il terriccio sia ricco e che i germogli non vengano distrutti. Per evitare che tutto diventi arido.

Sofia Persani, volontaria IBO del Campo di Lavoro e Solidarietà di Vohimasina (Madagascar)
2°Classificato al Concorso Letterario 2018 “Racconti di una esperienza”