
29 Nov Lezioni di solidarietà: giovane romano alle prese con il mondo
Posto 4a, sono su un aereo, non il primo che ho preso quest’anno e né sarà l’ultimo, ma questo è un po’ più speciale. Guardo fuori dal finestrino, la testa è piena di voglia di fare ed emozione, ma anche un pizzico di timore, perché quello non fa mai male.
Atterro all’aeroporto di Amsterdam, la mia avventura è appena iniziata.
Dopo aver ritirato il bagaglio mi dirigo verso lo sportello delle biglietteria e compro un biglietto per Almere; la gentile signora me lo consegna ma subito dopo comincia a parlare in un inglese molto confuso e veloce, io annuisco senza capire, si era creata molta fila dietro di me e non volevo far aspettare le persone più del dovuto, purtroppo sono fatto così.
Dopo quindi un’ora di flipper tra treni e pullman arrivo alla mia meta, la stazione centrale di Almere, dove una macchina mi aspetta pronta per condurmi a quella che sarebbe stata la mia casa per i prossimi 15 giorni.
Se dovessi descrivere ogni momento della mia permanenza in Olanda non avrei spazio sufficiente all’interno del mio computer, ma cercherò di provarci.
Il giorno stesso del mio arrivo giunsi nel primo campo, dove conobbi la maggior parte delle persone che mi avrebbero accompagnato nel lavoro. Appena arrivato feci conoscenza di un giovane ragazzo austriaco volontario come me, Moritz, fu lui a spiegarmi di cosa trattava il progetto.
Quello che stanno costruendo è un centro di aggregazione culturale, dove ogni famiglia, qualunque sia la sua regione di provenienza, può vivere in comunità aiutando e rispettando il prossimo. Questo a livello ideale, sul piano pratico molte ruspe scavano le buche per le fondamenta delle future abitazioni, mentre i volontari portano il materiale e costruiscono il tutto, questo sarebbe stato il mio lavoro in quel campo, anche se fui avvisato che avrei lavorato anche in altri. La cosa che più ha colpito Moritz, e che ha trasmesso a me, è che il passaggio tra idea e pratica è molto rapido; si pensa e si fa, una mentalità diversa.
Il secondo giorno cambiai luogo, è qui che incontrai per la prima volta Donald, un giovane falegname/tuttofare olandese che aiuta nel progetto. Il nostro obiettivo era quello di costruire una recinzione in legno per il futuro orto che verrà costruito vicino al campo profughi, dove i rifugiati potranno lavorare e procurarsi il cibo. Nel mezzo del lavoro arrivò Amable, un rifugiato politico congolese, ex avvocato, risiedente nel campo profughi, per portarci acqua e succo di frutta e un invito a venire a pranzo da lui; come poter rifiutare.
All’ora di pranzo entriamo nel campo, edificio 3 casa n.22b, queste le indicazioni; ci ritroviamo dentro un piccolo spazio, la casa è formata da un modesto spazio centrale per mangiare e cucinare con annesse le porte delle camere e del bagno, un ambiente così impersonale ma reso vivo e colorato dalle persone che ci vivono. Veniamo accolti da un’ospitalità incredibile, siamo gli invitati d’onore del pranzo e veniamo trattati come tali; pollo, riso e verdure, tutto incredibilmente buono e cucinato con amore.
Anche i giorni successivi andarono così, imparai ad usare una sega, a tagliare pezzi di legno con precisione, usare martello e chiodi, spalare e portare carriole.
A molti potranno sembrare cose da nulla, ma per me, cresciuto in un determinato ambiente e vissuto in una realtà completamente differente, sono tutto.
Una lezione fondamentale l’ho ricevuta 4 giorni dopo il mio arrivo, quando decisi di andare al campo in bicicletta. Io, come molti dei miei coetanei, siamo abituati ad una vita semplificata dall’utilizzo della tecnologia, siamo viziati da essa e ci sembra tutto facile. Quindi mi feci dare l’indirizzo del luogo da raggiungere e alla loro domanda se sapessi dove dovessi andare risposi “No problem, i have Google Maps”. Illuso. Dopo pochi chilometri il segnale cadde e cominciò a piovere, ero da solo in un posto che non conoscevo senza una mappa e senza la certezza di dove andare. Cominciai a pedalare, dopo poco sentii un botto, la mia ruota posteriore era andata. Mentirei se dicessi di non essermi fatto prendere dal panico, ma ricominciai a pedalare e con fatica, dopo circa due ore, arrivai a destinazione. Da quel giorno ho capito che bisogna sempre avere un piano b.
Con l’arrivo del weekend arrivarono anche i giorni di pausa e il momento di visitare, una delle cose che meglio so fare. La tappa è Amsterdam; arrivo presto in modo tale da poter vedere ogni cosa, e rigorosamente a piedi, perché girare una città nel suo interno tra le vie che gli autobus o i tram non possono raggiungere ha tutto un altro sapore. Con il tempo benevolo che accompagna questo mio weekend passo tra i canali della città illuminati da un’insolita e forte luce del sole, uno splendore dopo le giornate di pioggia.
Il lunedì arriva e sono insolitamente entusiasta di ricominciare, non ho lo stesso stato d’animo di un lunedì mattina scolastico nel quale a malapena trovi la forza di alzarti e andare a fare colazione. La settimana ricomincia e mi sento un esperto ormai, conosco tutti e tutti conoscono me, lavoro molto più in fretta e mi sento più sciolto con l’inglese.
Sabato mattina uscii da quella casa che 15 giorni prima aveva accolto una persona e che l’aveva vista uscire diversa, forse più matura e in qualche modo cambiata.
Descrivere come mi sentissi in quel momento non è facile; non ero né triste né felicissimo, ma ero contento di poter tornare dalla mia fidanzata, la famiglia, gli amici, e di poterci tornare con una mentalità diversa e con un’esperienza simile alle spalle.
Decollato l’aereo, mi sporsi sul finestrino e guardai giù, rivedendo la terra che mi aveva accolto e le persone che avevo conosciuto. Avranno sempre un posto dentro di me, sia per i bellissimi momenti, ma anche per quelli brutti. Perché come diceva Victoria Holt: “Non te ne pentirai. Se è bene, è meraviglioso. Se è male, è esperienza.”
Damiano Tommasetti, volontario IBO Campi di Lavoro e Solidarietà, Paesi Bassi
Concorso Letterario 2017 “Racconti di una esperienza”