02 Feb Perù, Huaycan
Un talento a cui aggrapparsi, da cui attingere per trovare la forza di affrontare il mondo; un talento per sentirsi vivi e vivere per quel talento…
«Amore, finalmente mi sono decisa. Questa estate parto per il Perù per fare un’esperienza di volontariato all’estero»
«Va bene, basta che poi ritorni, perché conoscendoti c’è il rischio che ti perdi, o peggio ancora, ti metti in qualche guaio! »
Così mio marito, da poco più di un anno, ha accolto la mia decisione. Quando mi chiedeva dove sarei andata, cosa avrei fatto e dove avrei dormito, la mia unica risposta era NON LO SO. Ammetto che non ero stata rassicurante, forse per questo, prima di partire, mi aveva caricato il cellulare di oltre 200 euro: almeno per qualsiasi evenienza potevo chiamare.
I giorni antecedenti la partenza li ho vissuti tranquilli, non avevo la più pallida idea a che cosa andassi incontro. Non avevo alcuna aspettativa, volevo solo partire per vedere cosa realmente significasse “aiutare” e “lavorare” nei paesi del “famoso” Terzo Mondo. Io che avevo scelto la cooperazione, come mio indirizzo di laurea, mi sono sempre limitata a lavorare “dal fronte” italiano. Ma era giunto il momento, dovevo partire e così ho fatto.
Arrivata all’aeroporto di Lima, alle 24.00 circa e dopo diciotto ore di volo, esco per assaporare un po’ d’aria, ma con mio grande stupore mi accorgo che la mia personale visione del Sud America era un po’ distorta. Faceva freddo anche lì e io in valigia avevo solo ciabatte e canottiere. Ad aspettarmi c’era Vincent, un insegnante di educazione fisica, con la PANZA, che sarebbe stato uno dei miei colleghi più cari per tutto questo mese di lavoro nella Casita, l’associazione di riferimento.
Ci immergemmo nel traffico caotico delle grigie strade di Lima per dirigerci a Huaycan, ad un’ora dalla capitale. Appena arriviamo alle porte della città, il mio primo pensiero fu: “lasciate ogni speranza o voi che entrate”; strano dato che le hanno attribuito come titolo “La Città della Speranza“.
Nata negli anni ’80, Huaycan è una comunità autogestita, composta da quasi 200.000 abitanti che continuano a costruire casette di legno, più simili a baracche, sull’arida terra del Serro, la catena montuosa che incornicia l’intera città. “Giganti” di sassi e polvere che svettano spigolosamente, da farti sentire quasi in gabbia.
Finalmente giunti alla Casita, inizio a rendermi conto dell’assurda situazione in cui mi ero cacciata. Una lunga serie di baracche di legno sarebbero state: la mia stanza, le aule di lavoro, la mensa e il bagno. Quest’ultimo era sprovvisto di acqua calda: una tragedia per una che si lava a 20° anche a ferragosto. Avrei vissuto e condiviso quella esperienza con un’altra volontaria italiana, Rosy mai vista e conosciuta prima.
Già partire in vacanza e vivere 24 ore su 24 con la tua migliore amica potrebbe essere rischioso; figuriamoci con una che fino a ieri ne escludevi persino l’esistenza. Da brava “gentleWoman” quale sono, le feci scegliere su quale piano del letto a castello volesse dormire. Più volte ho poi maledetto la mia “accondiscendenza” in quei trenta giorni dato che il mio materasso era una lastra di marmo, luogo di villeggiatura di pulci e scorpioni.
Anche se stavo realizzando l’assurdità del mio gesto, quello di partire a trent’anni quasi suonati, con un marito adorabile che però non sa cambiare il letto (quindi le nostre lenzuola sarebbero vissute di vita propria) e senza alcun contratto di lavoro al mio rientro, non potevo più tirarmi indietro: hai voluto la bicicletta e ora pedala!
Finalmente quel grigiore stava scomparendo anche se le case e le cose rimanevano perennemente impolverate dalla terra spazzata via dalle montagne. Stavano arrivando i bambini e loro sì che avevano parecchi colori addosso. Belli, bellissimi, tutti spettinati, ma con dei denti bianchi che spiccavano dai loro sorrisi. Capelli neri, lucidi e occhi quasi a mandorla che li rendevano simili a dei filippini, un po’ più abbronzati.
Al primo approccio sembrava di assistere al film “Incontri ravvicinati del terzo Tipo”; si nascondevano dietro i tavoli per osservarti di nascosto, ma quella falsa timidezza durò poco. Subito dopo io e Rosy eravamo due Crudelia De Mon (la versione buona ovviamente) con tanti cuccioli (di quasi 20 kg l’uno) attaccati addosso. Da allora sarebbero state le nostre ombre, persino al bagno ci avrebbero seguite.
E poi c’erano i “temibili” adolescenti. Ammetto, non sono mai stata una grande “mediatrice” con questa fascia d’età. Eppure è stata la categoria su cui io e Rosy abbiamo lavorato di più. È troppo facile conquistarsi i bambini, ma gli adolescenti di Huaycan, come quelli dell’intero pianeta, sono una specie “a rischio”.
Con loro ci siamo improvvisate atlete: io che evito lo sport persino quando faccio “zapping” con il telecomando. Con loro ci siamo arrabbiate perché non rispondevano alle nostre iniziative, minacciando di sabotare l’unica festa prevista: quella del Talent Show, o Show de los Talentos, perché convinti di non saper far nulla se non dormire. Ci siamo cibate l’odore dei loro piedi durante le tre giornate del campeggio e l’acqua griglia che lasciavano ogni qual volta uscivano da una piscina.
Abbiamo fatto del nostro meglio, siamo riuscite a rompere le loro “corazze”, a conquistare la loro fiducia e stima. Non eravamo più le due “benefattrici” che stavano trascorrendo una vacanza a mo’ di Isola dei Famosi. Eravamo loro amiche, convinte che in un solo mese si può lasciare il segno e loro l’avevano capito e apprezzato. Non avremmo mai potuto cambiare le loro tragiche situazioni, economiche e familiari, ma almeno avevamo ravvivato la fiamma della speranza che si stava spegnendo dentro di loro.
La conferma del nostro piccolo miracolo l’abbiamo avuta il giorno prima di lasciare la Casita, proprio con lo “Show de los Talentos”. Avevamo attivato una macchina organizzativa composta dagli stessi ragazzi, le mamme e gli operatori dell’associazione, tutti mossi da un unico obiettivo: trasformare la Casita in un vero “palcoscenico”.
Una serata indimenticabile, non sembravamo di stare in uno dei luoghi più poveri del mondo e i nostri ragazzi, perché oramai li sentivo anche miei, brillavano come vere Star. La sfiducia in sé stessi pareva scomparsa e cantavano, ballavano, disegnavano, facevano giochi di magia o lavori di bigiotteria con la consapevolezza di avere un Talento da mostrare e regalare ai propri spettatori. Un talento a cui aggrapparsi, da cui attingere per trovare la forza di affrontare il mondo; un talento per sentirsi vivi e vivere per quel talento…
Menzione Speciale Concorso Letterario 2013
Luciana Umbro, volontaria IBO Campo di Lavoro e Solidarietà Huaycan (Perù)