
24 Mag Sei mesi in Madagascar e due cose che mi lasciano ancora l’amaro in bocca
Il Servizio Civile dura un anno e insegna che il nostro modo di pensare ed agire non è necessariamente migliore ed unico. Dopo sei mesi, alla metà del proprio percorso, sarebbe bello poter dire di aver già capito tutto di un paese e di una cultura, di esservi entrate in perfetta sintonia. Ma ci sono aspetti con cui non è facile convivere: l’attesa e la violenza.
L’attesa
Il tempo in Madagascar è diverso da quello a cui siamo abituate noi, giovani ragazze di buone speranze provenienti da, ora ce ne accorgiamo, un frenetico nord Italia; in cui tutto ha un orario ben definito e gli appuntamenti sono incastrati nella nostra agenda, perché si sa, il tempo è denaro.
In Madagascar il tempo non è scandito così precisamente, o meglio, non è così importante. In Madagascar si aspetta. I bambini dovrebbero entrare a scuola alle 7:15 e sono le 7:25? Non è grave (tsy, manina in lingua malgascia), si aspetta. Gli uffici dovrebbero aprire alle 8 e sono già le 8:20? Si aspetta. I taxi bus (i bus locali cittadini) sono pieni e quindi non è possibile salire? Si aspetta quello successivo. Il taxi bus non è ancora del tutto pieno e quindi è fermo ad una fermata in attesa che altra gente salga? Si aspetta.
Molti dei malgasci non hanno un orologio, men che meno un telefonino, e nonostante ciò la città si sveglia, chi deve andare a scuola, va a scuola, chi deve lavorare va a lavorare. Il mondo che ci ha cresciute e che ha plasmato le nostre personalità, si affida ad un sistema fatto di minuti ed ore; inconsciamente abbiamo creduto che tale sistema fosse universale, condiviso da tutti, e, come succede spesso con le aspettative, ci siamo sentite frustrate, abbiamo visto questi “ridardi” ed attese, che per noi risultavano eterne, come una mancanza di rispetto nei nostri confronti.
Sarebbe bello poter dire di aver risolto questo nostro limite, di esserci ormai adattate a questo diverso impiego del tempo. Purtroppo non è così, come tutto ciò che riguarda il proprio modo di vedere le cose, è una continua lotta intestina tra il nostro stampo occidentale, la consapevolezza del non essere più in Italia ed i tempi malgasci. Ogni giorno ci troviamo a litigare con noi stesse, consce di dare la responsabilità delle nostre frustrazioni a persone che non ne possono nulla, che sono semplicemente abituate diversamente, e consce, soprattutto, del fatto che il nostro modo di pensare ed agire non è necessariamente migliore ed unico.
Per ora siamo ancora, dopo tanti mesi in Madagascar, immerse fino al collo in questa marea che è l’interculturalità, con correnti fortissime che ci sballottano di qua e di là. E si aspetta.
La violenza
La violenza, questa bestia conosciuta a tutti in un modo od in un altro. Qui in Madagascar, la violenza è all’ordine del giorno e si declina in varie modalità: è la compagna infame di ogni malgascio, presenza costante al fianco di uomini e donne da quando sono in fasce. Dalla nascita i bambini subiscono violenze, sia fisiche come punizioni sia psicologiche come ad esempio il “mangina (silenzio)” quando un bambino piange.
Certo, direte voi, facile parlare da italiana, questo è un classico esempio di etnocentrismo, tu credi di saper crescere i figli meglio delle loro madri. Non è proprio così, certe cose partono dallo stomaco, certi rifiuti sono sì frutto di un retaggio culturale, ma sono talmente forti che chiudono lo stomaco facendo passare la fame, anche se si è a digiuno da ore. Fanno venire il vomito al solo pensiero, non vomito tanto per dire, conati veri e propri e la nausea.
Ecco quello che provo io nel vedere la violenza ed è per questa ragione che ne scrivo. Penso che la violenza sia innata nell’essere umano, ma che quest’ultimo abbia, nel tempo, sviluppato le capacità per risolvere le tensioni diversamente.
Come si fa a rimanere indifferenti davanti ad una donna che viene pestata dal proprio marito? E se la moglie continuasse a rimanere con il marito violento? E se lei lo avesse già denunciato, ma senza alcuna conseguenza per l’uomo? E se la famiglia di lei cercasse continuamente di mediare per mantenere intatta l’idea di famiglia? E se questa fosse la storia di ogni singola donna, bambino e adulto malgascio? Come si fa ad accettare, passare oltre a scene del genere?
Tanya Nirina Tierney e Giulia Bertin, volontarie IBO in Servizio Civile in Madagascar