
17 Ott ”Si alza una voce, che la alzino tutti, qua e là”
Lettera/testimonianza
Cari signori che sedete sulle poltrone dei piani alti, questa è una breve lettera, forse utopica, che da tempo desidero scrivervi.
Sono in Perù da poco più di due mesi – me ne mancano altri dieci –, e forse a dettare tutto ciò sono l’incoscienza dell’inizio e
la convinzione di poter cambiare le cose come hanno provato a fare moltissime persone prima di me: ciononostante, non voglio rinunciare a mettere per iscritto ciò che sento martellarmi il petto la maggior parte del tempo che compone ogni mia giornata qui.
Vedete, esco di casa e… E niente, già qui ci sarebbe una prima cosa da dire: io vivo veramente in una casa. Le pareti sono fatte di mattone, il tetto è resistente, acqua, luce e gas ci sono sempre; perché così dovrebbe essere una casa. E, dicevo, esco di casa, e mi ritrovo circondata da quelle che sono invece le case degli altri: alcune sono di canne di bambù, altre di cartongesso, altre ancora di lamiera; luce e acqua sono un privilegio che spetta a pochi. E perché? Per una burocrazia lenta, per potenti che non vogliono cedere territori che comunque non userebbero, per una mancanza di volontà da parte di chi le cose le potrebbe cambiare con mezzi importanti. Così tutto rimane statico, io continuo ad uscire dalla mia casa di mattoni e a vedere queste case fatiscenti, la gente continua a combattere per avere da mangiare, i bambini nelle scuole o nelle ludotecas continuano nella loro altalena di sorrisi e sguardi cupi, di attimi di felicità e di brusco ritorno alla realtà.
Ma non c’è niente di romantico in questa povertà: c’è solo una vergognosa mancanza di giustizia.
Vedete, uno dei commenti più quotati al ritorno da questi viaggi – per nulla turistici – è quello in cui si constata che, dopo aver visto tanta miseria e aver cercato di aiutare le persone condannate ad essa, ci si sente davvero fortunati a vivere in Italia – in Europa – con tutti i comfort, fisici e psicologici, che ciò comporta. Ebbene, siamo fortunati e si sa da sempre, con più o meno consapevolezza; ma, anziché constatare l’ovvio, perché non chiedersi come mai noi siamo così fortunati e loro no? Invece di rimanere in questi posti con l’attitudine di chi cerca di rattoppare le pezze in un atto di vuoto assistenzialismo, si può pensare ad un cambio vero. Si può leggere, osservare attentamente e vedere che, con la nostra immobilità, noi siamo complici di questa disuguaglianza. Perciò, oltre a cambiare le nostre abitudini quotidiane ed europee per privarle di quell’eccesso e spreco di cui ormai sono intrise, si può parlare e far sì che anche e soprattutto le persone di qui parlino.
Per questo motivo, signori dei piani alti, io sto scrivendo una lettera, che non necessariamente verrà consegnata o avrà un seguito; ma è il mio primo segno di coscienza, il primo sfogo, anche se solo indiretto, di tutto ciò che mi scorre davanti agli occhi ogni giorno qui: non è normale che queste persone stiano così, non è giusto che credano che questo sia il loro destino o la loro condanna e che non si possa aspirare a qualcosa di migliore.
Ci sono dei problemi alla base: c’è l’eredità coloniale, con i suoi figli il razzismo e la disuguaglianza, c’è la tendenza dei potenti a non investire in maniera sensata la grande quantità di denaro di cui dispongono e chissà quanto altro – io sto imparando e conoscendo ogni giorno. Bene, una volta presa coscienza di tutto ciò, non resta che lottare, il che non significa essere violenti; rendersi conto di un’ingiustizia e manifestare non ferisce nessuno: ferisce invece la vostra violenza nel permettere che questo accada e continui ad accadere. Vedete, siamo soliti considerare malvagia una persona che ruba, ma non ci chiediamo perché quella stessa persona si sia ritrovata a rubare.
Sentiamo lo sguardo delle persone che insiste sulla nostra pelle e sui tratti del nostro viso, acconsentiamo confusi quando ci chiedono di fare una foto e non ci chiediamo perché tutto questo succeda. Ad alcuni viene da sorridere, perché si sentono ammirati, quasi venerati; non si chiedono però il perché di quegli sguardi. Non si rendono conto della percezione falsata che la gente ha di noi quando ci considera superiori intellettualmente, non si rendono conto che questi atteggiamenti sono i pronipoti del colonialismo, padre della differenza e disuguaglianza tra bianco e nero.
Finché questi modelli saranno perpetrati, finché penseremo di essere e saremo visti come i salvatori bianchi, finché non ci renderemo conto dei nostri doveri in quanto privilegiati, finché non scenderemo dal piedistallo che ci è caduto dal cielo per sederci invece accanto alle persone di qui, non ci sarà molto che potremo fare. Io sto quasi tutto il giorno alla stessa altezza degli abitanti di Paita, signori: e voi? Uscite mai dalle vostre sedi per impolverarvi, spettinarvi e guardare in faccia la realtà e le necessità di queste persone?
Il popolo può manifestare, è certo, ma voi dovete mettervi in ascolto e in moto. Non accusate coloro che si scaldano per le ingiustizie: chiedetevi qual è la base di quell’ingiustizia e se ne siete corresponsabili.
Mi congedo con speranza, vedete di non toglierne ancora a coloro che sono nati in un posto e con un colore della pelle considerati inferiori.
Maria Casolin, volontaria Corpi Civili di Pace in Perù